Summer 2017
Side;Game 1
Buongiorno! Sono lieto di presentarvi il primo Side;Game di quest’estate, nonché dalla riapertura del forum.
Per chi non conoscesse il regolamento, consiglio di farci un salto.
I punti importanti da sottolineare sono:
- i protagonisti della storia, questa volta, non sarete voi, ma degli NPC;
- il Side;Game è composto da un unico Stage;
- potrete accusare secondo le regole dei Game; tuttavia, non vi sarà difesa ed il risultato sarà immediato;
- se la vostra accusa sarà sbagliata, non potrete accusare per i 3 giorni successivi;
- avrete a disposizione la vostra domanda in verde, a differenza di quelle bianche;
- il Side;Game durerà 7 giorni, al termine dei quali, se nessuno di voi avrà smascherato il Lupo, verrà aggiudicata la vittoria al GM.
Se avete dubbi, perplessità o incertezze, chiedetemi pure ^^
Detto questo, diamo inizio al gioco!
Vi aspetto numerosi u.u
Ed in bocca la Lupo
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In un semplice e comune giorno d’estate, sarei dovuto andare a lavoro, poiché le vacanze mi spettavano qualche settimana dopo.
Camminavo sotto il Sole di prima mattina, che a poco a poco infondeva calore alla Terra, come in un dolce abbraccio. Non vi era traffico, ma da lì a poco tutte le macchine del quartiere sarebbero uscite dal garage o dal parcheggio in cui erano riposte, per accompagnare il loro conducente a lavoro.
Non si udivano uccelli cantare, né le foglie frusciare, accompagnate da una leggera brezza estiva, né alcun altro rumore che il mattino offre a tutti coloro gli dedichino le prime ore della giornata; il tempo sembrava come sospeso. Come unica prova dello scorrere del tempo, vi ero io, immerso in quel tempo senza tempo.
D’un tratto, quanto più inaspettatamente fosse possibile, ricordo. L’uomo ha un superpotere: dimenticare, ed io a lungo dimenticai le vicende accadutemi anni orsono, in questo stesso periodo dell’anno…
Eravamo otto: otto giovani ragazzi, più o meno della stessa età; e tornammo in cinque.
Affinché si abbia memoria di coloro, innocenti, che persero la vita per capriccio d’un pazzo, decisi di raccontare a voi, qui, la mia storia e le mie memorie.
La giornata non prometteva bene, già dalle prime luci dell’alba. Se non avesse piovuto, sarei uscito, scappando al triste destino che mi segnò la vita per sempre; tuttavia, fui costretto a casa.
Mi rigirai nel letto più e più volte, prima di decidere che non sarei riuscito ad addormentarmi e sarebbe stato meglio alzarsi. Così feci: mi alzai e, neanche il tempo di uscire dal bagno, che un rumore stridulo ed assordante invase la casa quanto i miei timpani: il campanello.
Andai, quanto il più rapidamente il sonno mi permettesse, alla porta.
Chiesi chi fosse.
Nessuna risposta.
Lo richiesi.
Nessuna risposta.
Aprii.
Non vi era nessuno. Mi girai, a destra e a sinistra, a cercare in strada colui che avesse bussato; tuttavia, in strada non c’erano che macchine.
Feci per chiudere la porta e rientrare in casa, quando, abbassando lo sguardo sullo zerbino com’era mia abitudine fare, notai una lettera color crema. La presi, me la girai tra le mani, ma nessun mittente o indirizzo, né alcun’altra scritta su entrambi i lati della busta.
Rientrai, chiudendomi la porta alle spalle. Mi sedetti sul divanetto della sala da pranzo, appena sulla destra rispetto l’ingresso, ed aprii la lettera, strappando la busta: un invito. Non vi era che data e luogo dell’incontro; nessuna firma, indirizzo mail o recapito telefonico.
Non conoscevo il luogo dell’invito e sorvolai la vicenda, con la scusante di un errore commesso dal postino.
Avrei voluto fosse finita lì. Eppure, due giorni dopo, fui svegliato dallo stesso irritante suono del campanello.
In casa non vi ero che io; d’altronde ero figlio unico e, quando i miei genitori lavoravano, restavo solo.
Aprii, senza chiedere chi fosse: il sonno non mi permetteva tanta lucidità.
Di nuovo una lettera. Riportava lo stesso identico messaggio, con un'unica differenza: una firma.
Un grosso “The Wolf”, scritto a mano, probabilmente con una penna stilografica d’epoca.
Mi convinsi che non potesse essere un ulteriore errore, quindi mi presentai all’appuntamento, il giorno previsto dalla lettera.
Non sapendo il motivo per il quale fossi stato invitato, quel pomeriggio indossai una camicia a righe, non troppo lunga, lasciata cadere su un semplice jeans classico.
Ero leggermente agitato, nonché preoccupato. Ai miei dissi che ero stato invitato ad una festa; mi lasciarono andare senza voler sapere nient’altro.
Mi presentai in anticipo.
Quel luogo, riportato fedelmente sulla lettera, era un parco giochi apparentemente abbandonato; me ne resi conto troppo tardi, quando fui entrato.
L’ingresso si presentava con un enorme cancello in ferro battuto, rovinato dalla ruggine e dai rampicanti che ne avevano ricoperto la cima; ai lati 2 alte colonne, che un tempo, forse, avevano sorretto un qualcosa; non un guardiano, non un lucchetto a tener chiuso il cancello; solo 3 di quei pilastri in cemento, anch’essi rovinati dal tempo, ad impedire che entrassero mezzi.
Entrando, fui accolto da una dolce melodia. Qualcuno, dinanzi un pianoforte, suonava, da Mozart a Beethoven, da Bach a Chopin… Ah, la musica! Che poesia… La musica! Una magia al di là di tutto ciò che facciamo… note solitarie che cercano conforto in altre, mescolandosi ed unendosi tra loro, a creare una composizione musicale di una bellezza unica ed irripetibile… Ah, la musica!
Quella musica: mai udii suoni migliori…
Attratto dal suono armonico del pianoforte, seguii il suo canto, fino ad un’ampia sala.
Vidi, per la prima volta da quando ero arrivato, un gruppetto di persone, tutte intorno il pianista ed il suo pianoforte. Questo, dopo aver finito di suonare, sentendomi entrare, si alzò; mi disse: - Ti stavamo aspettando. Avvicinati pure, coraggio.
Lo raggiunsi, come mi invitò a fare, anche se non capii perché mi stessero aspettando: d’altronde, ero in anticipo. Allora gli posi una domanda che serbavo sin da quando sentii il campanello risuonare per la prima volta, quando trovai la lettera: - E’ Lei colui da cui ho ricevuto quest’invito?
Il pianista mi scrutò da capo a piedi; sembrasse stesse cercando nei ricordi se, dove e quando, mi avesse già incontrato. Dunque, rispose: - Colui che stai cercando, non si svelerà. O, almeno, non sembra aver intenzione di farlo, per ora.
La nostra conversazione fu interrotta, dall’improvviso chiudersi dell’ingresso a quella sala. Nessuno si mosse, tranne un ragazzo, qualche anno più grande di me, gli occhi pieni di terrore, con indosso una tuta sportiva, simile a quelle usate in America. Corse dall’altro lato della sala, a cercare di aprire la porta, scotendola, ma non appena la sua mano entrò in contatto con la maniglia in ferro della porta, il suo corpo fu invaso da elettricità, fino a provocargli la morte.
Il corpo morto di Jo, com’era scritto sull’etichetta del berretto che aveva indosso, cadde a terra, provocando un rumore sordo, che rimbombò in tutta la sala.
Accorremmo tutti, spaventati e preoccupati, a tentare invano di soccorrerlo. Era morto: non c’era nulla da fare.
Entrammo tutti nel panico più totale: chi cercava di capirci qualcosa discutendo ad alta voce, chi temeva per la propria incolumità, chi aveva completamente perso la ragione… In tutto questo chaos, credevo d’essere l’unico a pensare a chi potesse essere stato e, soprattutto, a chi ci avesse condotti lì, in quel luogo. Presto, però, mi resi conto che anche il pianista era rimasto lucido. Mi avvicinai per parlargli, chiedere spiegazioni: mi disse che nessuno di loro si conosceva e che non avevano idea di chi li avesse potuti invitare in quel luogo, che si rivelava sempre più tetro e misterioso.
Chiusi in quello stanzone senza finestre né altre porte oltre all’ingresso, probabilmente un tempo usato per balli a ritmo di pianoforte, rimanemmo in sette.
Convinti che non saremmo potuti uscire, ci mettemmo alla ricerca di cibo.
La sala era immensa: al centro, un antico pianoforte a coda nero, sul quale si estendeva una grande cupola di vetro, sorretta da aste di ferro, a fare da lucernario; il pavimento in marmo; due divanetti in pelle nera per parete, eccetto dove vi era la porta.
Un paio d’ore dopo, passate a cercare sotto i divani ed in mezzo i cuscini, una ragazzina, apparentemente più piccola di me, lanciò un urlo di gioia. Dapprima si allarmarono tutti, successivamente la ragazza ci disse di aver trovato del cibo: nella coda del pianoforte erano nascoste ‘93 scatolette di cibo in scatola, che cercammo di razionare al meglio.
Quando dal lucernario iniziò a filtrare meno luce, decidemmo fosse ora di mangiare; dunque, ci fu servita una scatoletta di simmenthal. La ragazza che serviva era parecchio gentile, nonostante le circostanze; era bassa di statura ed un po’ in carne, il che le conferiva un’aria molto dolce e simpatica. Pareva si chiamasse Heather.
Ignoro ancora il motivo per il quale piansi la sua morte, il mattino dopo.
La trovammo sgozzata, sul pavimento, circondata da scatolette di cibo immerse in un lago di sangue. Tutti credettero si fosse suicidata, colpita dal rimorso di aver consumato decine di provviste; io no: non volevo credere ad un suicidio.
Piansi per tutta la mattina, e fino alla sera rimasi triste e pensieroso, immerso nei miei pensieri. Solo il pianista, dopo cena, forse per consolarmi, mi rivolse parola; mi disse: - La vita è tutta una bestialità, e allora dica un po’ lei che cosa significa il non averne commessa nessuna: significa per lo meno non aver vissuto - lo ricordo come se fosse ieri.
Partecipanti:- Misakichan
- Alucard
- John Ken
- Rose
-
Heather-
Jo- Ary
- Kanea
